“Quant’è bella a muntagna”, farfugliava, indicando a fatica MonGerbino, disteso alle spalle di Aspra. Di sera, abbracciato ai compagni di taverna, barcollava, intraprendendo un percorso alquanto incerto e nel frattempo ripeteva:-“Quant’è bella a muntagna”- La moglie lo attendeva sulla soglia di casa, poi a fatica lo faceva entrare, dirigendolo a letto, gonfio di sonno e di vino. A volte, Ciccio rammentava che loro, Provvidenza e Francesco, da giovani, si erano chiamati, scandendo bene ogni sillaba, sentendosi unici, fondamentali l’uno per l’altra. Poi, gli otto figli, il suo lavoro, reso improduttivo anche dalla prodigalità, la bottiglia facile e tanto tanto altro ancora, ne smorzarono il fervore e quei nomi a poco a poco, cominciarono ad avvizzirsi:-Eeenzaaa-e lei, sottotono, rispondeva con qualche figlioletto attaccato al seno e qualche altro alla gamba. Negli anni, quei nomi si erano rinsecchiti ancora e ancora, fino a due esigue uniche vocali:-Eeee…che rassegnata gli faceva eco:- Oooh!-Erano volate via tutte le lettere!Ciccio proveniva da una famiglia agiata; i suoi genitori erano emigrati in America e lui, eterno gaudente, era rimasto in paese, dissipando in abiti, accessori e quant’altro, il danaro che gli veniva inviato. Da ragazzo, aveva svolto l’apprendistato dal maestro Cola Bruno, poi gli anni bui: la guerra, la prigionia. Al ritorno, aveva aperto un salone tutto suo, diventato nel tempo, come da consuetudine, un luogo dove trovare libri, riviste e potere argomentare fatti di cronaca. Ciccio era affascinato da terre lontane; studiava le culture, le abitudini, analizzandole da diverse prospettive. Il desiderio di misurare la sua preparazione lo intrigava e organizzava sfide interminabili con gli studenti che lo frequentavano. Amava dipingere. Raffigurava con tratto genuino, privo di stereotipi, un’Aspra azzurra, incontaminata. Da visionario, tra un bicchiere di vino e l’altro, immaginava di entrare in quei paesaggi, lui, finalmente libero, immerso tra sconfinate fantasticherie che ora reclamavano altro vino, altro colore, in un vortice inarrestabile. Dopo la sbronza, aveva persino la pretesa di assolversi, giustificando il vizio e il mal di vivere con le pretese dell’arte. Il suo mestiere includeva il lavoro di cerusico; tra capelli, pidocchi e peli, applicava sanguisughe e cavava denti e quando capiva che il cliente era un povero squattrinato, lo sbarbava, gli alleviava il dolore e lo congedava, senza pretendere alcun compenso. Mai fu generoso con i taccagni. Un giorno, un bambino con qualche spicciolo, chiese il taglio dei capelli, Ciccio gli azzizzò metà della chioma, ma non ultimò l’opera. Conoscendo le possibilità della famiglia, decise di rispedirlo a casa; al padre polemico, spiegò che avrebbe completato il lavoro, solo se avesse ricevuto l’intera cifra stabilita. Era un uomo ironico, distaccato, con “l’aspetto trasognato, malinconico e”, come esige il testo, “assente”.All’età di 59 anni, si ammalò. Un giorno, aveva predetto: -Morirò sotto una pioggia di rose-Accadde a giugno, in una notte tempestosa. La mattina, un tappeto di petali sparsi sulla soglia di casa, salutò quel viso scarno, elegante, eternamente velato di nostalgia e di rimpianto.