Una cintura in mano, una coppola sulla testa calva, scarpe eternamente consunte e calzoni larghi sopra la maglia, stringati al petto da una cordicella: Turiddu usciva così, diretto ogni mattina al marciapiede antistante.
Aveva tracciato il perimetro di un recinto immaginario, dove camminava in un andirivieni continuo, costante. Accompagnava ogni passo, con parole ripetute infinite volte: – S’ascuta a matri… s’ascuta a matri… s’ascuta a matri… frasi di cui nessuno capiva il senso, ma che scandivano la sua esistenza.
Di tanto in tanto, nel suo ritmo quotidiano, si inseriva una nota improvvisa. Chinava lo sguardo sul percorso e cominciava a far roteare la coda della cintura su micce irreali, che via via simulava di accendere. Un bambino da lontano, scorgendolo, avvisava gli altri: -Curriemu, Turiddu, u juocu i fuocu, sta sparannu: -Sciii buuum…sciii buuum…sciii bum bum bum… Entravano in scena i ragazzi: lo canzonavano, lo deridevano. Agitato, si arrabbiava. Accennava un innocuo inseguimento…Poi borbottava qualcosa…Piano piano, si calmava. Rientrava di nuovo nel suo mondo… nei suoi mantra…nei suoi passi.
Un giorno, vide la bara della madre uscire dalla soglia di casa. Con gli occhi rivolti a quel tratto, cominciò a ripetere: – ri cca nisciu e ddi cca ha trasiri… Ri cca nisciu e ddi cca ha trasiri…una litania perpetua, recitata nella speranza di vederla riapparire, proprio dalla stessa porta da cui era scomparsa.