Destava inconsciamente stupore. Quell’uomo in miniatura non faceva parte della realtà ordinaria, sembrava appartenere ad una sorta di “uninverso”, un mondo sottosopra in cui ogni cosa appariva lecita, fuori dai canoni abituali che regolavano la vita di ognuno. A lui era permesso tanto, dalla frequente sbronza ai capricci alimentari.
Era ghiotto di polpo e lo mangiava con tale voracità che a volte si strozzava; non di rado si vedeva qualche vicino, afferrarlo per i piedi, metterlo a testa in giù e scuoterlo animatamente, per liberarlo dal boccone. Per racimolare qualche soldo, si prestava a fare la spesa e a svolgere commissioni varie. Di tanto in tanto andava anche a pescare, ma il suo rachitismo non gli facilitava le azioni; i pescatori gli assicuravano comunque un po’ di pesce da portare in famiglia. Mummineddu amava cantare, in osteria, tra le barche, per strada, al sole, Mummineddu cantava, cantava sempre. Gli piaceva il repertorio classico napoletano, ma essendo analfabeta, veniva istruito da sua sorella Caterina e da Maria la levatrice. Era la mascotte delle feste serali, beveva qualche bicchiere, saltava sul tavolo e cominciava ad intonare i suoi cavalli di battaglia.
I musicanti lo accompagnavano mentre ballava e sgambettava e tutti erano coinvolti in quell’ebbrezza liberatoria. Si, è vero, Aspra a volte lo canzonava, ma Mummineddu sapeva che avrebbe avuto sempre un posto luminoso in quel caleidoscopio umano. Un giorno, arrivò in paese un circo e gli sconvolse l’anima. Venne subito ingaggiato e con gli artisti viaggiò in lungo e in largo per il “continente”. Di mattina cucinava, di sera si esibiva. Fu quello il periodo più intenso della sua vita. Conobbe una donna e fu subito amore. Insieme in quella carovana, condivisero musiche, sorrisi, sogni. Dopo qualche anno da solo ritornò a casa. Cupo vagò smarrito per un po’ di tempo, poi si quietò, ripiombando tra le sue sonnolente ma rassicuranti abitudini.