Lo sguardo di Rosa era fin troppo disincantato. Aveva conosciuto tanto… troppo… consapevole che nella sua vita, anzi nella vita si possono solo fronteggiare le avversità.
Le ipotesi per lei erano pure inezie, care a chi cercava una fuga dall’esistenza, abbastanza cruda per chi aveva conosciuto l’abbandono, la miseria, la perdita e l’umiliazione. Sua madre, convinta di essere posseduta da uno spirito, aveva compromesso la sua vita sin dall’infanzia; parlava spesso in un presunto perfetto latino, evento confermato dalla totale analfabetizzazione degli astanti, e stazionava per buona parte della giornata a letto. Ignazio, l’uomo che aveva sposato, fu costretto ad emigrare, per lavorare nelle miniere d’oltre oceano.
Dopo tempo, le condizioni in cui viveva, lo costrinsero a tornare a casa. Ormai era malato. Rosa capì che da quel momento, la sua vita sarebbe dovuta cambiare e si impiegò “a patruna” come lavandaia. Erano tempi in cui l’aristocrazia contava ed esigeva deferenza, per un indiscusso riconoscimento di superiorità, e lei mal sopportava subordinazioni e ordini.
Un giorno, accusata dalla “padrona” di non essere stata riverita abbastanza del titolo di voscenza, perse il controllo, cominciando a ripetere: “scenza si… scenza si…scenza si…sbattendole la porta del palazzo in faccia. Un’altra volta, squarciò con un coltello la foto del dittatore, appesa nella putia del paese. Trascorse parte della sua vita così, tra rabbia e riluttanza.
Colpo dopo colpo, divenne schiva, ritrosa verso ogni affettazione o lusinga. Dopo anni di disagi, finalmente, assaporò un po’di pace, assunta a servizio nella dimora della marchesina De Cordoba.
Pinè, così si chiamava, le parlava come fosse una figlia, chiedendole pareri e consigli con quel rispetto e affetto che per tanto…troppo tempo aveva desiderato. Era già vecchia, quando venne invitata da un nipote a passare qualche giorno a Roma, Rosa accennò un sorriso, poi rispose: “È taiddu…Mi sentu scrusciri” Se ne andò per sempre, da lì a poco.